Valeria Gradinati abita sul Lago di Como ma, come leggerete tra poco, non ama la vita sedentaria. Valeria è un vulcano, non si ferma mai e mi ha raccontato con entusiasmo la sua esperienza negli Stati Uniti. Anzi, le sue esperienze. Valeria è partita la prima volta nel 2017 per scrivere una tesi di laurea sperimentale in Minnesota, con un’esperienza di un anno all’interno di un laboratorio di Minneapolis.
“Ho studiato Chimica e tecnologia farmaceutica, ovvero la farmacia per nerd potremmo dire: l’ultimo anno è necessaria una tesi sperimentale basata su un’esperienza in laboratorio della durata di un anno. Dovevo quindi scegliere dove andare, io sono arrivata un po’ all’ultimo e dapprima ho chiesto in alcuni posti a Milano. Avrei però voluto recarmi all’estero, non in Europa perché non mi sembravano interessanti i progetti. Poi ho sentito il programma “Tesi in America” e senza nemmeno sentire dove mi sarei recata ho deciso che lo avrei fatto: ottenuta la borsa di studio ho realizzato che sarei andata in Minnesota. Uno Stato che si trova sotto il Canada e che fa -30 gradi in inverno… insomma l’ideale per me che sono nata per essere messa su una spiaggia sotto il sole”.
Nonostante le difficoltà, tra cui un paio di jeans congelati nell’armadio per colpa del riscaldamento rotto in una gelida mattina invernale, Valeria ha trascorso un anno a Minneapolis. Una città che ha imparato ad amare e apprezzare, anche nelle sue piccole-grandi differenze con la cultura italiana.
Come si vive a Minneapolis
“Quella a Minneapolis è stata un’esperienza bellissima in cui ho capito tante cose. All’inizio non volevo sentir parlare in italiano ma dopo un mese ho capito che trovare un gruppo di immigrati italiani sarebbe stato un grande aiuto. È stato bello scoprire esperienze di vita comuni, condividendo le difficoltà. La prima per me è stata che non usano le nostre unità di misura, in primis i Fahrenheit: ho scoperto che quelli negativi iniziano da -20 e soprattutto che non è una bella notizia quando si parla di Fahrenheit negativi. Il meteo a Minneapolis è imprevedibile: esiste il loro inverno (-30 gradi) e poi il nostro (che per loro è la primavera ma è praticamente il nostro inverno), loro però sono abituati e ho ipotizzato che hanno uno strato di epidermide in più rispetto al nostro perché io avevo sempre freddo. Per quanto riguarda le persone, in Minnesota sono molto pacati: è un po’ la terra del passivo-aggressivo. Non puoi dire nulla in faccia alla gente, loro girano molto intorno ai concetti. Noi siamo più diretti e di contatto, forse anche senza accorgercene. Queste sono differenze grandi a cui poi ci si adatta, ma all’inizio l’impatto è un po’ strano. Minneapolis è una città in cui da single ci si può arrangiare, io vivevo bene anche solo con il mio stipendio in accademia (minore rispetto ad altri)”.
Tornata in Italia per laurearsi, Valeria ha poi iniziato a cercare un’occupazione ed è stata ricontattata dal professore americano che l’aveva seguita per la tesi e che le ha offerto un posto di lavoro.
“Ho quindi iniziato a fare le procedure del Visto a fine 2018, con storie da Topolino ad esempio che l’Università non mi aveva mai inviato il mio diploma. Sono quindi tornata in Minnesota e ho iniziato a lavorare per realizzare vaccini contro la dipendenza da oppioidi: una ricerca che schizza alle stelle perché hanno tantissimi problemi di dipendenza, ora lo hanno un po’ diminuito ma prima li davano come caramelle. A proposito di oppioidi, un giorno stavo andando al lavoro su una bicicletta dell’anteguerra e sono stata presa in pieno da un minnesotano che viaggiava in bici a 300 all’ora (si fa per dire), ho fatto un volo mostruoso e mi sono rotta (male) la clavicola. Mi hanno portata in ospedale dopo avermi dato una Coca-cola da bere (secondo un’infermiera avrebbe dovuto aiutare), tra ambulanza e ospedale mi hanno somministrato ben tre oppioidi diversi: uscita dall’ospedale ero fattissima, avevo una nausea molto forte e ho addirittura rimesso in un cestino della spazzatura scostando una bambina che giocava lì a fianco (poverina)”.
Pandemia a Minneapolis
Uscita dallo stato “very high” in cui si è ritrovata a causa dei medicinali, mettendosi a posto la spalla praticamente da sola per via dei costi altissimi di ricoveri ed eventuali operazioni che nessuna persona appartenente al ceto medio si potrebbe permettere negli States, Valeria si è ritrovata lo scoglio della pandemia.
“Dopo aver lavorato per un anno, da aprile 2019, sono tornata a casa per Natale ma poi rientrata a Minneapolis poco prima che scoppiasse la pandemia. Da lì non mi sono più potuta muovere per via delle restrizioni, è stato un periodo difficile: faceva freddo, non si poteva uscire, ero lontana da casa. La mia fortuna sono stati i miei coinquilini con cui andavo d’accordo, anche i miei amici italiani con cui abbiamo poi festeggiato il Natale a Minneapolis sono stati molto di supporto. Nel frattempo ho iniziato a cercare lavoro in altri luoghi degli Usa, poi però ho capito che a causa del mio Visto non avrei potuto trasferirmi e avrei dovuto chiedere la Green Card. Anche per questa c’è un processo particolare, tra cui una lotteria fatta dal Governo: ci si iscrive su un sito web e si può tentare di vincere la Green Card che è basata anche sul merito, ho partecipato un paio di volte ma non ho vinto. Si può prendere in altri modi, ad esempio sposandosi oppure per merito accademico: io ero una buona candidata ma di norma ci vuole almeno un anno, con la pandemia sarebbe durato 2-3 anni e non me la sono sentita”.
Il rientro a casa è stato dunque obbligato, ma Valeria aveva già avuto l’occasione di girare in lungo e in largo gli Stati Uniti nel periodo di permanenza (le foto lo dimostrano, vi assicuro che le abbiamo selezionate perché erano tantissime).
“Ricordo il primo viaggio che ho fatto in auto in Texas, quattro giorni on the road: abbiamo affittato l’auto e ci siamo buttati in autostrada, finendo nella corsia di emergenza come prima manovra. Mi è andata bene, poi, perché in ambasciata avevano sbagliato a fare il mio Visto: risultava di 11 mesi anziché 9, quindi ho avuto anche due mesi per fare diversi giri. Sono stata in Florida, ho fatto un altro tour in auto nel Sud e poi sono tornata a casa”.
Come partire per gli Stati Uniti
“Anzitutto bisogna trovare qualcuno che ti assuma, sottolineo che il tuo expertise deve essere unico perché a loro costa molto di più assumere uno straniero. Serve una richiesta (un visto aziendale), poi c’è una lotteria. In ogni caso è meglio andare come studente, poi si fa un Master o un Phd, poi un Post Doc con un Visto di connessione che dura due anni (in cui si può andare tramite laboratorio nazionale, con cui passare a H1B e poi puoi chiedere la Green card). La Green Card o viene offerta dall’azienda (o sponsorizzata in accademia se sei un professore) o costa 10 mila dollari. Se vuoi andare negli Usa devi partire molto in anticipo, sapere cosa vuoi fare già prima di recarti lì”.
Ma, come detto all’inizio, il destino di Valeria non è certo quello di stare ferma. Nel frattempo è infatti riuscita a frequentare un master in Global Health da remoto, lavorare in diversi posti tra Como e Milano, fare uno stage in Africa e una “gita” in Cile… L’ultima volta che ci siamo sentite, stava organizzando un trasferimento per lavoro a Barcellona.
“Per quanto riguarda gli Stati Uniti, mi guardo indietro e sono soddisfatta di ciò che ho fatto, della fatica e delle esperienze. So che non starò qui a vita a fare la farmacista, mi sposterò in altri luoghi del mondo ma per ora mi godo il momento. L’obiettivo di queste esperienze è rendersi conto che non si conosce mai realmente nemmeno il proprio ambiente, dalla comunicazione alla mentalità al sistema sanitario: prima di fare esperienze fuori dall’Italia davo queste cose per scontate, ora invece me ne rendo conto. Andando via si scopre non solo un Paese nuovo ma si esplora anche se stessi. Ricordo tanti momenti belli, in generale il fatto di legare con persone che stanno facendo un percorso simile al tuo oppure scoprire che c’è gente per la strada che non parla la tua lingua ma ti vuole aiutare, o che ti sorride senza conoscerti. Di brutto c’è stata la preoccupazione per i miei genitori lontani durante la pandemia, un po’ di sconforto in certi momenti come quando non riuscivo a ottenere un nuovo Visto ma ho accettato anche quello. Fortunatamente ho avuto tante persone che mi hanno supportata, anche i miei genitori con cui ho un ottimo rapporto: quello che ti salva sono le relazioni umane, ovunque tu vada“.
Cara Tania. Quando mi hai raccontato la tua idea per questo blog ti ho detto che mi sembrava una buona idea. Ora, dopo aver letto questo primo articolo, ti posso dire che non è una buona idea ma…una grande idea . La storia di Valeria ci racconta un’esperienza che é, sicuramente, interessante per chi vuol farsi una cultura su cosa voglia dire trasferirsi all’estero per lavoro o studio ma, soprattutto, molto utile per tutti quei giovani e non, che si approcciano ad affrontare un viaggio simile ho stanno valutando l’idea di farlo. Spesso sentiamo storie incredibili su esperienze del genere. Storie dove magari si racconta, esagerando, di stipendi milionari senza raccontare anche delle difficoltà e dello spirito di adattamento che serve per affrontarle. Io sono sempre stato dell’idea che, nonostante tutto, queste esperienze possono solo arricchire chi le affronta e renderle persone migliori e più consapevoli. Ti rinnovo i miei complimenti per il tuo blog e faccio un grande “in bocca al lupo” a Valeria e alla sua voglia di conoscere. Grazie