Silvia – Au pair negli Stati Uniti

Silvia – Au pair negli Stati Uniti

Un “anno sabbatico”, spesso, per molte persone equivale a prendersi del tempo per sé ma anche a provare nuove esperienze all’estero. Tra queste c’è sicuramente quello di fare la cosiddetta “ragazza alla pari“: ed è proprio questa la storia di Silvia, partita da Verona per fare la au pair negli Stati Uniti.

Se lo scorso anno vi avevamo raccontato l’esperienza di Valeria a Minneapolis mentre lavorava alla tesi, questa volta Silvia ci parla dei due anni che ha trascorso in diverse famiglie americane per badare ai loro figli. Appoggiandosi per tutto il periodo a un’apposita agenzia, che teoricamente dovrebbe offrire un’assistenza a 360 gradi prima e durante la permanenza all’estero.

Partire come au pair negli Stati Uniti

La decisione di intraprendere il viaggio negli Stati Uniti è nata dopo un periodo di incertezza. Silvia si è infatti diplomata alla scuola superiore, dopo di che ha lavorato per un paio di anni. Non essendo convinta di cominciare la carriera universitaria, infatti, ha deciso di proseguire con qualche lavoretto fino all’arrivo della pandemia: proprio in quel periodo si è trovata, come moltissime persone, senza lavoro. E così, un po’ per caso, ha scelto di partire come au pair negli Stati Uniti.

“Il mio sogno è sempre stato quello di vedere l’America e quindi in quel periodo ho cercato diversi modi per andarci. Tra le altre cose, un giorno mi è comparsa una pubblicità per fare la ragazza au pair negli Stati Uniti e quindi ho deciso di informarmi e valutare: avrei lavorato come babysitter e poi avrei potuto utilizzare il mio tempo libero come preferivo. Andando negli Stati Uniti avrei avuto l’opportunità di imparare meglio la lingua inglese, fare un’esperienza all’estero, vivere in una famiglia americana e approfondire di più la cultura americana conoscendo allo stesso tempo nuove persone”.

Come detto poco sopra, e come evidenziato anche nell’articolo in cui vi abbiamo parlato dell’esperienza di volontariato all’estero, quando si decide di intraprendere un viaggio come questo è bene rivolgersi ad agenzie affidabili e che effettivamente diano un supporto per qualsiasi esigenza. Pena il ritrovarsi sole a gestire tutta una serie di problematiche.

“Ci sono varie agenzie a cui iscriversi per partire come au pair, dovrebbero fare assistenza sia prima della partenza sia durante il periodo all’estero per gestire ad esempio l’assicurazione e l’estensione del periodo di permanenza per il secondo anno. Prima di partire, attraverso l’agenzia le famiglie cercano e mandano le richieste alle ragazze che possono confermare o rifiutare; da lì iniziano le varie videocall e dopo 2 o 3 chiamate si fa il match e poi si decide il periodo e l’effettiva partenza. Si consideri che dal rilascio del Visto si hanno a disposizione 30 giorni per partire”.

Dunque, tornando a Silvia, alla fine è riuscita a partire nell’estate 2021 ed è rimasta fino all’estate 2023 come ragazza au pair negli Stati Uniti. “Sono stata via due anni senza mai tornare, nemmeno per Natale. Col Visto si può tornare solo per il primo anno ma io ero presa a fare i miei viaggi e quindi non sono tornata, comunque il tempo è passato velocissimo. Hai sempre qualcosa da fare, organizzare, tra tempo libero e lavoro e college lessons è tutto molto impegnativo e impegnato. Dapprima sono stata da una famiglia in Florida: la mamma era una dottoressa e quindi ho potuto prendere il Visto di emergenza che veniva concesso a chi andava a lavorare in famiglie con persone che esercitavano un lavoro di prima necessità. Ero felicissima e mi ritenevo fortunata che mi avessero scelta. Mi sono trovata molto bene, la famiglia mi ha dato vitto e alloggio ma anche un’auto tutta mia pagandomi addirittura la benzina, la spesa e persino una carta di credito”.

Au pair negli Stati Uniti… girandoli in lungo e in largo

Questa prima famiglia ha dato a Silvia la possibilità di scoprire gli Stati Uniti, potendo decidere come organizzare il proprio tempo libero senza restrizioni. Il secondo anno, invece, si è trasferita a Los Angeles dove ha trovato un’altra famiglia ad accoglierla. “Si può decidere di stare con la stessa famiglia anche per il secondo anno ma io ho preferito cambiare posto. Oppure, se non ci si trova bene, si può chiedere di cambiare e infatti a me è successo il secondo anno: dopo due mesi, per problemi legati all’igiene nella famiglia ho chiesto all’agenzia di cambiarla e me lo hanno concesso. Io ho amato la mia famiglia in Florida, dove dovevo prendermi cura di tre bimbi, ma è stato difficile perché i genitori non mi davano molta attenzione. I primi tre mesi ci sono stata male perché non li sentivo accoglienti, ma poi ho iniziato a farmi la mia vita oltre al lavoro nelle ore stabilite. Invece con la famiglia a Los Angeles c’era un rapporto più stretto: per me la mamma era come una sorella, era da sola con la bimba ma mi lasciava i miei spazi per uscire”.

Allo stesso tempo è stato fondamentale, quindi, avere una rete di altre ragazze au pair negli Stati Uniti con cui condividere gioie e piccoli grandi problemi quotidiani. “L’esperienza è stata positiva al 98%. Fondamentale per me è stato farsi degli amici: la vera famiglia che chiamavo in momenti difficili, ci si capiva perché si era tutti nella stessa situazione. La mia grande fortuna è stata di aver trovato ragazze come me, con gli stessi obiettivi e la condivisione di esperienze: la voglia di lasciarsi alle spalle per un po’ la cultura italiana, immergendosi completamente in quella americana”.

Qual è la percezione che hai avuto stando in una famiglia come ragazza au pair negli Stati Uniti? Ti sei sentita apprezzata? “Per loro conviene a livello economico prendere una ragazza dall’estero, pagano una cifra alta all’inizio all’agenzia ma le famiglie sono quasi tutte benestanti e a noi arriva solo una piccola quota al mese. Purtroppo in molti casi ti trattano un po’ come una governante: noi non potremmo fare i mestieri né la spesa ma loro tendono quasi a sfruttarti in questo senso, quindi come esperienza è bella ma bisogna sapere che c’è il rischio di essere trattati così. Le ore lavorative d’altronde dipendono dalla famiglia: il primo anno era come se fossi la mamma dei bambini, facevo anche 70 ore a settimana (anche se al massimo avrei dovuto farne 45) e in teoria avrei dovuto avere almeno un weekend libero al mese. Li curavo anche la notte perché la mamma aveva i turni in ospedale ma per fortuna mi pagavano di più quando succedeva, io in cambio le chiedevo di farmi viaggiare per qualche giorno. La seconda famiglia invece non era così aperta a concedermi viaggi, io però ho insistito e quindi alla fine sono riuscita a prendermi un po’ di ferie”.

Hai parlato di viaggi, avevi una sorta di bucket list? “Assolutamente! E devo dire che mi mancano solo le Hawaii tra i posti che mi ero segnata da visitare, ma farò un viaggio apposta solo per quello. Ho visto ad esempio le Bahamas, l’Alaska, New York, Boston, Chicago, la Florida l’ho girata tutta in auto in un road trip con una ragazza che faceva anche lei l’au pair. Poi ancora Washington Dc, New Orleans, i parchi nazionali della California, Colorado, New Mexico, Texas, Messico andando a Cancun e Tulum per una settimana, San Francisco, San Diego. Riuscivo a farmi dare insieme alla mia amica 4-5 giorni ogni mese per andare via e per non perdere tempo partivamo di buon mattino con il primo aereo delle 6. Invece il secondo anno, quando passavamo in auto per Los Angeles, sembrava di essere in un film: lo avevo sognato così tanto e mi sembrava di vivere in un sogno“.

Pro e contro dell’au pair negli Stati Uniti

Rifaresti quindi l’esperienza della ragazza au pair negli Stati Uniti? “Certamente, anche solo per poter visitare tutti quei posti. Io sono davvero felice, sono cambiata totalmente in positivo: si cresce tantissimo dal primo giorno perché si deve essere autonomi. D’altronde le famiglie pretendono che tu faccia il tuo lavoro, stando dietro ai bambini in tutto e per tutto. Non ero mai stata fuori sede né vissuto da sola, solo un mese a Londra con mia sorella per lavorare e quindi trovarsi da sola è stato catapultarsi nel mondo adulto da un giorno all’altro“.

Sei partita da sola e, anche se lì viaggiavi con un’amica, eravate comunque due ragazze giovani in giro per l’America. Qualche consiglio per chi magari ha paura di farlo, anche non come au pair negli Stati Uniti? “In primis condividere la posizione coi familiari, viaggiare sempre con almeno un’altra persona appunto, avvertire dei tuoi spostamenti le tue conoscenze lì o i tuoi parenti così che possano rintracciarti avvisando anche delle attività quotidiane che andrai a fare. Non si sa mai cosa possa succedere, si deve stare attenti e avere la testa sulle spalle sempre. Può capitare di andare in un hotel in una zona non bellissima e in cui si percepisce pericolo, in quel caso chiamare qualcuno che possa stare al telefono con te”.

Quali progetti hai per il futuro? Vorresti ripartire? “In realtà mi sarebbe piaciuto rimanere negli Stati Uniti ancora per un po’: avrei voluto iscrivermi al college a Miami ma non ce l’ho fatta, i piani sono cambiati e quindi sono dovuta tornare in Italia. Qui si è ri-capovolto tutto: non ero più abituata allo stile di vita italiano e alla mia vecchia routine, quindi c’è stato uno shock culturale al contrario. Dopo l’estate sono tornata sui miei passi, ho accettato il fatto di non tornare a Miami e ho trovato un lavoro qui. A novembre 2023 sarei voluta partire per l’Australia per un periodo ma ho, appunto, trovato lavoro e quindi per ora sto qui… anche se la mente va sempre ai viaggi“.

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